Relazione del Congresso "Una malattia rara chiamata "Corea di Huntington"" tenutosi il 9 giugno 2002 a Magenta (Mi) presso l’ospedale "G. Fornaroli"

Questo congresso, organizzato con la collaborazione dell’Associazione A.I.C.H. Neuromed, aveva lo scopo di avvicinare le famiglie alle diverse realtà scientifiche che coinvolgono la Corea di Huntington. Erano presenti un centinaio di pazienti e famigliari e i rappresentanti delle Associazioni "A.I.C.H. Neuromed", "Associazione Pavese Malattia di Huntington", "Ricerca in Movimento" (su delega di Stefania Solari), "A.I.C.H. Milano" e "Mauro Emolo". Dopo il canonico quarto d’ora di ritardo il congresso è stato aperto da un discorso del direttore sanitario dell’Ospedale "G. Fornaroli" di Magenta, il dott. Imbalzano. Ci tengo a sottolineare che il discorso, sobrio e sentito, è stato uno dei momenti più toccanti del congresso, e che l’esempio di umanità, sensibilità e garbo del dott. Imbalzano andrebbe seguito dall’intera classe medica. Il primo intervento è stato quello del dott. Ferdinando Squitieri dell’istituto IRCCS "Neuromed" di Pozzilli (Is). La relazione, dal titolo "Cos’è la Malattia di Huntington" ha in sostanza ricalcato quella tenutasi il 18 settembre 2001 presso l’Istituto "Neuromed", in questo caso supportata anche da immagini molto chiare e comprensibili della malattia. Riportiamo quindi l’intervento già redatto.

"Innanzitutto alcune considerazioni sulla Corea di Huntington. Alcune persone hanno avuto molti malati nella stessa famiglia e hanno avuto modo di seguire l’evoluzione di questa malattia nel corso dell’intera vita, altri ne hanno potuto osservare solo una parte. Nessuno probabilmente ha mai detto ai famigliari qual è l’evoluzione di questa patologia, come si riconosce, come si segue, come si interpretano le sue manifestazioni. E questo non è un problema solo dei famigliari, spesso riguarda anche i medici. Molti medici, non avendo modo di vedere molti pazienti con questo disturbo, vedendone solo alcuni del corso della loro vita, li osservano in fasi diverse, e questo fa perdere certe volte il senso globale del problema. Questo giustifica in parte la difficoltà di riconoscimento della malattia, soprattutto nelle fasi iniziali, quando ci sono delle condizioni cliniche poco chiare che sono per definizione subdole e che coinvolgono parti diverse del sistema nervoso e del corpo. C’è un disturbo del movimento che si chiama "còrea", caratterizzato da movimenti involontari che non si riescono a controllare, che ha dato il nome alla malattia. In realtà la còrea non è l’elemento più importante della malattia, ragione per cui in genere oggi la si definisce "Malattia di Huntington". Ci sono infatti altri elementi che hanno responsabilità nella patologia, elementi di tipo comportamentale (comportamento alterato), anche se non sempre presenti, che generalmente sopraggiungono prima della malattia, in alcuni casi invece compaiono dopo i movimenti coreici, molto difficili da interpretare, valutare e definire. Questi sono spesso causa di conflitto di interesse tra i medici, questi pazienti vengono visti solo da psichiatri e non da neurologi, per esempio, oppure il medico di base non sa come muoversi e da che specialista indirizzare il paziente. Un altro problema è quello collegato al declino delle funzioni cosiddette "superiori", quelle intellettive, ma fortunatamente, rispetto per esempio al morbo di Alzheimer, il disturbo, pur essendoci, avanza lentamente nel corso della vita e le persone mantengono una buona condizione intellettiva per diversi anni. I sintomi della Corea di Huntington possono dunque essere distinti in tre gruppi:

SINTOMI FISICI: abbiamo già parlato della "còrea" come principale disturbo di questa malattia, ma ci sono altri sintomi che sono concomitanti oppure "seguono" la "còrea". C’è la BRADICINESIA, cioè un rallentamento delle funzioni motorie. Da un lato ci sono dei movimenti involontari, dall’altra parte c’è un rallentamento dell’ideazione del movimento, come se ci fosse un’espressione "mimica" nelle persone, che dà la sensazione di "assenza" pur non essendo necessariamente associato a un declino psichico (per approfondimenti su questo argomento vi rimando all’intervento di Jim Pollard nella sezione dedicata al Congresso dell’International Huntington Association). Man mano che la malattia avanza con gli anni compare la DISTONIA, ovvero una contrazione muscolare. I movimenti "coreici" che non hanno finalità, simili a tic, si trasformano, la muscolatura si irrigidisce e si contrae (sia i muscoli agonosti che antagonosti, cioè sia quelli che fanno flettere o allungare il braccio, la gamba ecc.) in una sorta di rigidità. Solo nella parte finale subentra la RIGIDITA’ vera e propria che è la caratteristica clinica tipica del morbo di Parkinson, che rallenta l’intera persona, i movimenti coreici spariscono del tutto e c’è questa forma rigida che caratterizza la fase conclusiva della malattia.

SINTOMI COMPORTAMENTALI: qualche volta questi sintomi sono molto importanti e consistenti, crescono in maniera più rapida rispetto ai disturbi del movimento e a un certo punto raggiungono un livello che mantengono senza ulteriormente peggiorare per il resto della malattia. Questo disturbo, che non è sempre presente nelle persone, è generalmente molto più importante nella fase iniziale e intermedia della malattia.

SINTOMI COGNITIVI: benchè comincino molto presto sono molto, molto lenti, quasi non ce ne si accorge se non nella parte avanzata o finale della malattia.

Questa variabilità clinica della malattia, questi sintomi che concorrono insieme a caratterizzarla, genera problemi di terapia, non si possono curare tutte le persone allo stesso modo con gli stessi farmaci nelle varie fasi della malattia. I cosiddetti farmaci sintomatici possono portare buoni risultati per certi sintomi ma essere dannosi o controproducenti per altri sintomi. Alcuni possono arrivare ad essere tossici. Non è corretto, secondo la comunità scientifica, bloccare la "còrea" subito, non appena insorge, se sui libri di neurologia di molti anni fa c’era scritto che la còrea si curava con il Serenase oggi questo non avviene più perché le persone che hanno questo disturbo non sono consapevoli della gravità della loro còrea, non se ne rendono conto, è più un problema dei famigliari, non un problema loro personale. Bloccare la còrea a volte li danneggia, non migliora necessariamente la loro qualità di vita. Alle volte questi farmaci di vecchia generazione possono essere ancora utili, ma in un numero ristretto di casi in cui ci possano essere dei disturbi di tipo comportamentale molto marcati. Questo farmaco PEGGIORA la rigidità e INDUCE la distonia, quindi il medico che li prescrive rischia di peggiorare la qualità di vita delle persone. Per quanto riguarda le valutazioni del medico curante ci sono molti casi in cui, anche se non ci troviamo nella fase avanzata della malattia, il paziente ha già una forma di rigidità. Non è però una rigidità "esplicita", è ingannevole rilevarla sebbene sia presente e si possono somministrare al paziente farmaci che la favoriscano senza rendersene conto. Per questo è sempre bene rivolgersi a uno specialista che abbia una larga esperienza con malati di questo tipo. Le valutazioni non possono quindi essere univoche, devono essere eseguite di volta in volta sulla persona e i farmaci verranno prescritti di conseguenza. Molti sono dell’avviso, a tutt’oggi, che non sono tanto i disturbi del movimento quanto quelli del comportamento che vanno curati. I disturbi del movimento potranno avvalersi di altre possibili strategie terapeutiche future come quelle di tipo riabilitativo. Il disturbo di movimento in quanto tale non è insomma il punto critico della malattia, benchè sia un problema grosso non è quello cruciale da inibire.

E’ quindi intervenuta la dott.ssa M. Cannella dell’IRCCS "Neuromed" con la relazione "Il test genetico: la sua importanza e i suoi limiti". Una spiegazione fondamentalmente tecnica su tutte le tappe del test e le varie tipologie: TEST PRESINTOMATICO, TEST PRENATALE, TEST DI PREIMPLANTATION, TEST GENETICO INDIRETTO.

Vi è poi stata la relazione "Il test genetico predittivo: come farlo e perché farlo" delle dott.ssa Cislaghi e dott.ssa Stangalino del Servizio di Neurologia di Magenta, che si focalizzava sulle implicazioni psicologiche del test e i riscontri, positivi e negativi che questo poteva avere sul paziente e sui famigliari.

Entrambi questi interventi non hanno messo in luce nulla di nuovo rispetto a quanto detto negli ultimi anni. Per un consuntivo su tutti gli aspetti del test vi rimando al sito internet: http://ricercainmovimento.cjb.net nella sezione "TEST GENETICO".

Dopo la testimonianza di Cristina Del Ciello, famigliare di un paziente affetto da Corea di Huntington, che ha raccontato il proprio percorso personale nell’affrontare la malattia e il test (risultato negativo sia per lei che per sua sorella), è iniziata la relazione del dott. Andrea Ciammola, assistente del dott. Silani presso l’IRCCS "Istituto Auxologico" di Milano e della dott.ssa Elena Cattaneo. La sua relazione, molto scientifica e per ovvie ragioni difficile da comprendere, ha gettato una luce abbastanza chiara sulle strade persorse dalla ricerca. Cercheremo qui di farne un riassunto il più possibile comprensibile.

Le cinque cause sinora identificate della Corea di Huntington sono:

  1. FORMAZIONE DI AGGREGATI
  2. APOPTOSI/CASPASI
  3. DANNO MITOCONDRIALE
  4. DEPRIVAZIONE DI FATTORI DI CRESCITA (BDFN)
  5. ECCITOTOSSICITA’

 

 

Analizziamoli singolarmente:

"A una riunione presso l’istituto "Carlo Besta" di Milano tenutasi il 10 luglio 2001 la dott. Cattaneo aveva già esposto la sua scoperta di fronte a un pubblico prevalentemente medico. Questa volta si trovava di fronte a un centinaio di persone, quasi tutti famigliari o malati, e ha adeguato il suo linguaggio all’occasione. Quello che ne è derivato è un intervento entusiasta, comprensibile e colmo di speranze per il futuro che DEVE trasmetterci la forza per combattere contro questa malattia che, come chiaramente emerge da questa relazione, NON E’ invincibile. Questa è una giornata molto particolare anche per me, perché la ricerca non è abituata a uscire dai laboratori. Invece è una cosa che penso sia molto importante, quella di trasferire le informazioni, far capire a che punto siamo. Soprattutto quello che vorrei cercare di fare è essere in grado di ripercorrere cosa sia la ricerca, chi sono i ricercatori e quali sono le scoperte, per dare un’idea del fermento incredibile che c’è intorno a noi, la pressione che i ricercatori hanno per cercare di sfruttare le loro conoscenze e la loro professionalità al meglio per arrivare a capire e a curare questa malattia. C’è un vero esercito di ricercatori nel mondo, e a volte, togliendomi dalla mischia, mi chiedo anch’io chi siano e perché debbano fare questo lavoro, che in fondo è davvero difficile anche dal punto di vista personale. Perché la vita personale è schiacciata contro una parete, non c’è famiglia, non ci sono figli, l’unico obiettivo è arrivare a capire e curare. Ma perché si fa tutto questo? Ci sono due spiegazioni, secondo me: ovviamente il ricercatore nasce con la curiosità intrinseca di capire e di sapere ancora più esasperata di quanto non sia in tutti gli altri. Non c’è modo di staccarsi dal bancone di lavoro finché un esperimento non è finito, finché il risultato non è chiaro, finché non è stato ripetuto. Questa è la forza principale, questa morbosa curiosità di capire. Dall’altro lato, via via che il ricercatore si forma, soprattutto quando è a contatto con malattie come questa, diventa fortissima la consapevolezza che possiamo fare molto. E allora mettere insieme queste due cose non dà scampo: il lavoro è pesante e duro ma nessuno di noi vuole sottrarvisi. Come si passano quindi le giornate? Cos’è la ricerca? E’ un continuo farsi domande e sviluppare gli strumenti per avere delle risposte, poi farsi delle altre domande ed avere delle risposte ancora più precise. Non è così semplice, bisogna lavorare su ogni punto: identificare l’ipotesi, identificare l’idea, confrontarsi con i clinici, trovare i soldi per lavorare… Con un obiettivo unico: sconfiggere la malattia. Questo è lo spirito, quello che trasforma molti giovani ricercatori in veri e propri carri armati. Tutti i ricercatori del mondo sono in contatto per sviluppare delle strategie con delle "fertilizzazioni incrociate", tutto è sempre sotto controllo. Prima di entrare nel merito della scoperta del nostro laboratorio volevo raccontarvi che dieci anni fa ho conosciuto un clinico di cui sentirete parlare: Marc Peschanski. Lui è francese, lavora a Creteil, e allora stavamo entrambi iniziando eravamo i "giovani ricercatori" e ricordo che mi ha detto una frase che mi ha colpito, perché è una cosa che ci accomuna un po’ tutti: "Per me la sfida alla Corea di Huntington è diventata una sfida personale. Ed è così che la vediamo tutti: è una sfida professionale e personale. Per questo chiediamo l’aiuto di tutti (anche dei famigliari e dei pazienti tramite il prelievo di sangue, perché per le esperienze di laboratorio i campioni di sangue sono cruciali), bisogna far capire che in Italia c’è questa malattia, e il nostro ministero deve capire che questa è una malattia che si può capire e curare. Il nostro scopo principale è quello di scoprire nuovi farmaci. Oggi non vi dirò che c’è un farmaco pronto. Ci sono diversi farmaci che possono controllare i sintomi, ma dovete immaginare che dietro questa prima linea c’è un vero esercito di ricercatori che stanno testando ipotesi, farmaci diversi, prima sugli animali per poi arrivare sui pazienti. Per questo: nessuno si senta solo, la malattia è qualcosa che noi affrontiamo tutti i giorni e dobbiamo arrivare a sconfiggerla. Cos’è che il mio gruppo ha scoperto, dunque? E’ una nuova idea, una nuova strategia per affrontarla e tentare di contrastarla. I modi per farlo sono molti, i ricercatori devono vedere DIVERSI punti d’attacco e sviluppare nuovi farmaci. Un giorno forse la terapia arriverà combinando tutte queste diverse strategie. In questi anni ci sono stati dei cambiamenti totali nel modo di pensare e di affrontare questa malattia e l’evento più importante è stata l’identificazione del gene nel 1993, un UNICO gene che è mutato. Quello che devono fare i ricercatori è abbastanza "semplice": devono capire come quest’unico gene sviluppi la malattia. L’intervallo da chiarire è quello tra la mutazione del gene e della malattia: cosa avviene nel frattempo? Questa è l’unica malattia del cervello la cui origine è NOTA, è un vantaggio che la ricerca deve assolutamente sfruttare per arrivare a capire e a curare. Altre malattie come il Parkinson e l’Alzheimer sono malattie su cui gli investimenti sono massicci (e la mancanza di investimenti è il nostro vero problema) ma la loro origine è ignota. A giugno di quest’anno però l’ente americano più autorevole della ricerca scientifica, quello che eroga i finanziamenti, ha definito la Corea di Huntington una malattia "strategica", non più "rara", non più "anticommerciale", perché può essere un esempio per le altre malattie, una volta che si cura la Corea di Huntington si potrà capire e curare malattie più complesse come Alzheimer e Parkinson. Ci sono delle speranze CONCRETE, quindi, non illusorie. Nel 1993 è stato quindi individuato un gene che nella popolazione sana ha una sequenza di lettere ripetute (CAG) limitata. Nel gene malato queste lettere vengono invece ripetute troppe volte, da 36 sin oltre 200. Come conseguenza di questa ripetizione da questo gene si sviluppa una proteina (ogni gene ne produce una) con un’altra sequenza di lettere (CAG nel gene diventa Q nella proteina) ripetuta. Anche la proteina quindi è mutata. Il problema è cercare di capire come questa proteina, l’huntingtina, mutata provochi la malattia. Dal 1993 a oggi l’idea era che questa proteina mutata avesse un effetto tossico intrinseco, che "acquista una nuova funzione". Per farvi un esempio: gli individui sono abituati a camminare, andare in bicicletta ecc., improvvisamente subentra una mutazione e gli uomini iniziano a volare. Questa è una funzione nuova, acquisita, strana, difficile da tenere sotto controllo perché normalmente gli individui non sanno volare, con il rischio che cadano. Con la mutazione, quindi la proteina fa qualcosa in più e purtroppo questo qualcosa è tossico. Scoperto questo i ricercatori cercano di sviluppare farmaci che blocchino questa funzione mutata e che "riportino l’individuo che vola a terra". Migliaia di ricercatori lavorano in questa direzione proprio per bloccare questa nuova funzione e ci sono già farmaci che arrivano da alcuni esperimenti testati sugli animali. Questo è uno dei punti d’attacco. Noi invece abbiamo sviluppato un’altra ipotesi, ancora più semplice: immaginate di avere un gene, che se esiste nel nostro organismo vuol dire che ha una funzione, che serve a qualcosa. Allora ci siamo detti: con la mutazione oltre a far fare qualcosa di strano, di nuovo e di tossico alla proteina mutata, è evidente che questa mutazione interrompe la funzione normale del gene. Per fare un secondo esempio: è come avere una bacchetta per rimestare la polenta e spezzarla nel mezzo, non assolve più alla sua funzione. Se è così la Corea di Huntington è causata da due cose fondamentali: la proteina muta e diventa tossica (facendo "volare" l’uomo) e viene persa la funzione originale della proteina sana (si spezza la bacchetta per mescolare la polenta). Tutti noi abbiamo questo gene, se esiste ha delle funzioni, quindi la Corea di Huntington ha due facce e c’è una nuova strada per avere dei farmaci efficaci: non solo bloccare la funzione tossica (volare) tramite farmaci, ma anche ripristinare la funzione normale (aggiustare la bacchetta). Prima di tutto però dobbiamo capire cosa facesse l’huntingtina quando era sana. Esiste, ma cosa fa quando è normale? Se si fosse scoperto che la proteina normale ha una funzione benefica e protettiva avremmo capito che protegge i neuroni e quanto è mutata i neuroni degenerano perché si perde questa protezione. E’ risultato essere proprio così. Il primo passo della scoperta era capire cosa facesse la proteina normale, la sua funzione. Il risultato è stato che questa è una proteina benefattrice perché serve a far produrre alle cellule una seconda proteina, la regola, ne influenza la produzione. Questa seconda proteina, prodotta a sua volta da un secondo gene che viene stimolato dall’huntingtina sana, si chiama BDNF, Brain Derived Neutrophic Factor. Proteine come il BDNF sono cruciali per la sopravvivenza dei neuroni del cervello. Osservando gli animali abbiamo scoperto che da uno strato del cervello che si chiama corteccia partono e vengono dirette delle informazioni che arrivano allo striato, la zona colpita dalla Corea di Huntington. Abbiamo scoperto che i neuroni che muoiono nella malattia hanno bisogno normalmente per la loro sopravvivenza del BDNF, senza il quale muoiono. Ma non se la fanno "in casa": questa molecola, questa proteina BDNF viene "fatta" dalla corteccia e poi spedita allo striato. A regolare tutto ciò è l’huntingtina normale. Nei soggetti sani il gene produce un’huntingtina sana che a sua volta fa produrre alla corteccia il BDNF che viene poi trasportato allo striato che grazie ad esso vive. E’ una specie di "cibo" per i neuroni dello striato. Nella malattia l’huntingtina è mutata, la sua funzione protettiva si perde, non "ordina" più alla corteccia di produrre il BDNF, lo striato resta senza e muore. Da giugno ad oggi è stato un passo avanti, si è compreso COME l’huntingtina faccia produrre il BDNF. Una volta compreso questo meccanismo si possono sviluppare farmaci che si comportino come l’huntingtina normale e che stimolino il gene del BDNF a produrlo. Dei surrogati di huntingtina, in sostanza. E’ come se l’huntingtina "parlasse" a una precisa sezione del gene del BDNF, abbiamo scoperto che la zona dove l’huntingtina interviene è l’ESONE 2, una parte precisa del gene. Noi dovremo quindi sviluppare dei farmaci che "parlino" a questo Esone 2 per convincerlo a produrre il BDNF esattamente come fa l’huntingtina. Non si può somministrare ai pazienti l’huntingtina, perché è una proteina grossissima, bisogna creare dei surrogati, dei farmaci più piccoli che possano arrivare al cervello. Rispetto a un anno fa dove tutta la strategia per lo sviluppo di farmaci per la Corea di Huntington era volta a cercare di contrastare la funzione tossica acquisita della proteina mutata ora c’è un’altra possibilità, quella di capire come funziona l’huntingtina sana e produrre molecole che "mimino" quell’azione che manca. Questa informazione che abbiamo ottenuto verrà utilizzata dai ricercatori di tutti il mondo, ogni gruppo sfrutterà l’informazione come crede, battendo sempre nuove strade."

La considerazione finale del dott. Ciammola è stata che, a fronte di tutte queste vie di ricerca, la probabilità maggiore non sarà di trovare un’unica cura, ma di affidarsi alla POLITERAPIA, ovvero un insieme di terapie atte a contrastare ogni aspetto della patologia.

L’ultimo intervento è stato quello del dott. Vincenzo Silani, primario di Neurologia all’IRCCS "Istituto Auxologico" di Milano. Ha fatto il punto della situazione in merito ai trapianti e alle prospettive di terapia genica. Nulla di nuovo, purtroppo.

A chiudere la riunione è stata la signora Rosa Sparapano, presidente dell’Associazione Pavese Malattia di Huntington, che ha portato la sua esperienza personale e ha presentato le prospettive e i risultati che la sua Associazione intende raggiungere.

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